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Per l’avviamento commerciale non è dovuta alcuna indennità al conduttore di un immobile espropriato

La questione, che prima dell’entrata in vigore del T.U.E. presentava aspetti contradditori, può ritenersi risolta poiché il comma 4 dell’art. 34 dello stesso T.U.E., ha introdotto una esplicita norma che esclude l’avviamento commerciale dalle voci componenti l’indennità di espropriazione. Essendo stato il T.U.E. un atto di semplificazione (non una riforma legislativa) per la giustificare di tale soluzione valgono gli indirizzi giurisprudenziali assunti prima dell’entrata in vigore del testo unico stesso.
La Corte Costituzionale, infatti, dopo un’iniziale apertura con la sentenza n. 126/1988, con successive sentenze si è attestata su posizioni di netta chiusura circa il riconoscimento, al conduttore di immobili espropriati, dell’indennità di avviamento commerciale come posta aggiuntiva dell’indennità di espropriazione.
L’alta Corte, prima con la sentenza n. 542/1989, ha dichiarato costituzionalmente illegittimo l’art. 34 della legge n. 392/1978, poi, con la sentenza n. 242/1992, ha dichiarato illegittimo l’art. 69, della stessa legge, nella parte in cui prevedevano l’obbligo del locatore di corrispondere al conduttore l’indennità per l’avviamento commerciale quando causa di cessazione del rapporto sia un provvedimento della pubblica amministrazione che esclude indefinitamente l’utilizzazione economica dell’immobile.
Per tale orientamento la Corte, partendo dal principio secondo il quale al conduttore che rilascia l’immobile viene, ordinariamente, riconosciuta una speciale indennità a compensazione della perdita che egli subisce, ritiene che tale principio valga solo nei rapporti tra privati e che non vi sia ragione di applicarlo allorché l’attività venga a cessare per effetto dell’espropriazione che, come è noto, sottrae il bene al commercio giuridico privato per accertate ragioni di pubblica utilità.
L’orientamento richiamato è recepito, dalla Corte di Cassazione con la sentenza della sez. I n.14205 del 18 gennaio 2009 e la sentenza sez. I civile n. 8229 del 6 aprile 2009.
La Cassazione afferma, in particolare, che nel caso in cui, a seguito di espropriazione parziale per pubblica utilità, risulti impedito l’ulteriore svolgimento di un’impresa che utilizzava l’immobile espropriato per l’esercizio della propria attività, la determinazione dell’indennità di esproprio deve essere effettuata, secondo il criterio dettato dall’art. 40 della legge 25 giugno 1865, n.2359 (N.d.R.: ora artt. 33, 37, 38 e 40 del T.U.E.), tenendo conto della differenza tra il valore dell’area espropriata, comprensivo di quello degli edifici che vi insistono, ed il valore dell’azienda (N.d.R.: da intendersi come valore patrimoniale), non potendo costituire oggetto di indennizzo il pregiudizio che il proprietario o il titolare di altro diritto subisce per non poter più esercitare l’impresa in quel luogo, in quanto l’indennità di espropriazione è commisurata al valore venale del bene, non a quello dell’azienda.
Pertanto le costruzioni esistenti sull’area vanno considerate nel loro valore in sé, non per il diverso valore che possono avere in rapporto alla particolare destinazione connessa all’attività di impresa e dunque alla circostanza di essere adibite a sede dell’azienda. In applicazione di tale principio la S.C. ha cassato la sentenza impugnata, che, ai fini della determinazione dell’indennità dovuta per l’espropriazione di un’area destinata a stazione di rifornimento di carburanti per autoveicoli, aveva tenuto conto della redditività dell’azienda sulla stessa insistente.

Ultimo aggiornamento: 23/10/2012

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